Spesso i progetti nascono scavando dentro se stessi, alla ricerca di quello che ci fa ridere, piangere, urlare… Insomma, cercando ciò che ci fa sentire vivi, come riconoscere e comprendere a pieno le emozioni degli altri. È il concetto di empatia. Ma vi siete mai chiesti cosa significa realmente empatia?
Noi di Project School vogliamo cercare di spiegarlo partendo da un’esperienza personale, tramutatasi poi in progetto. Ecco il racconto di Luigi, co-founder e direttore creativo.
Cosa significa empatia? La nascita del progetto
Lo ricordo come fosse ieri. Era l’aprile del 2016, e l’Europa era sconvolta dopo gli attacchi terroristici che avevano colpito Parigi e Bruxelles, la città in cui ancora vivo. Avevo raggiunto un gruppo di amici per fare un brunch in un posto nuovo, in cui non ero mai stato. Si cercava di tornare alla normalità dopo un periodo di coprifuoco che aveva limitato la possibilità di spostamento.
In quei giorni era impossibile non parlare di terrorismo islamico, di scontri di civiltà, di fondamentalismo religioso. Queste parole facevano ormai parte di ogni conversazione, non si riusciva a pensare e a parlare d’altro. E ovviamente noi non facevamo eccezione, anche in quella domenica mattina dove avevamo comunque tanta voglia di metterci alle spalle quei brutti momenti.
Dopo i primi confronti su come fossimo stanchi di quella situazione, infatti, eccoci a parlare di comunità arabe e musulmane, di integrazione e di multiculturalismo. Ricordo subito una sensazione di estraniamento dalla conversazione molto forte. Nessuno era un esperto di questi temi, ma ne parlavamo come se avessimo delle formule per risolvere un problema a noi sconosciuto. Sentivo il bisogno di ricondurre tutto ad un’emozione, ad uno stato d’animo, ad un comportamento. La discussione si incanalò verso la presunta impossibilita di coniugare democrazia occidentale e mondo arabo/musulmano, due termini che si confondevano continuamente… Ed è lì che iniziai a muovermi su una traiettoria diversa.
Pensai a che tipo di dolore deve provare un bambino che si fa saltare in aria immolandosi in nome di (dis)valori che non comprende profondamente. Com’è possibile che lasciamo che questo avvenga? Che non riusciamo a capire profondamente questo dolore, che questo gesto è essenzialmente una richiesta di attenzione, di amore, una ricerca di identità?
La mia voce era andata da sola, senza filtri: avevo pensato a voce alta. Il risultato non fu dei migliori… Dopo qualche secondo di silenzio, dove cominciavo a sentire l’attenzione crescente degli altri, un ragazzo sembrò esprimere le sensazioni prevalenti all’interno del gruppo. Mi rispose così: “Non so chi eri tu a 14-15 anni, ma io di certo non pensavo a farmi saltare in aria uccidendo persone innocenti. Magari per risolvere un problema che avevo a scuola o dei problemi a casa… Credo che la tua frase giustifichi questo ignobile atto e non abbia alcun rispetto dei tanti innocenti che perdono la vita in queste circostanze”. Da quel momento in poi non ci fu modo di riprendere la conversazione e riportarla su un binario più profondo. Le provai davvero tutte, ma ormai ero marchiato come finto moralizzatore ed ero diventato, quindi, un fiancheggiatore dei terroristi.
Ricordo una passeggiata per rientrare a casa molto mesta, in cui cercavo di spiegarmi per quale ragione fossi stato travisato. Alla passeggiata seguì una serata non di certo migliore, che terminò con una notte insonne. Ma come è noto, la notte porta consiglio, e mentre mi rigiravo continuamente cercando la posizione più comoda, ecco l’apparizione di una parola chiave: empatia. Sì, avevamo tutti bisogno di empatia, intesa come capacita di metterci nei panni degli altri e di condividere passioni, bisogni ed emozioni. Ormai la ruota era partita: dovevo per forza pensare ad un progetto che spiegasse cosa significa empatia. Un progetto che ne promuovesse il termine come modo di avvicinarsi a coloro che hanno più difficoltà ad essere ascoltati, compresi e amati.
I passi successivi furono abbastanza veloci: l’approfondimento della parola empatia e delle attività inerenti a questo tema. Come ad esempio l’incredibile esperienza dell’Empathy Museum di Londra. Ma anche la ricerca di partner adeguati, come la Fondazione Empatia di Milano, e la riflessione su che taglio dare al progetto.
E poi l’ideazione concreta, i fogli di carta su cui il progetto sembrava finalmente prendere forma. L’incontro-scontro con i partner che hanno contribuito a renderlo ancora più realistico, fattibile, concreto. La ricerca del bando più adeguato, la scrittura, la condivisione con esperti e professionisti del tema. E, finalmente, l’invio della proposta alla Commissione Europea. La sensazione di aver fatto qualcosa di importante, di mio, un contributo personale. Un bisogno scaturito da una situazione vera, di grande intensità emotiva.
Sapete qual è la cosa più incredibile? Che sono tre anni che lavoro al progetto e non sono ancora riuscito a farmelo finanziare… Ogni anno lo rileggo, lo riscrivo e lo invio di nuovo. La valutazione è sempre migliore, i punti sono sempre di più, ma non riesco proprio a vincere. Sara il 2020 l’anno buono? Spero proprio di sì visto che al momento la proposta è al vaglio di valutatori europei. Ma sapete che vi dico? Non so quale sarà l’anno del progetto empatia, ma sono sicuro che prima o poi il tentativo sarà vincente. Non è più una questione di se, ma di quando sarà accettato e riceverà un finanziamento per essere messo in pratica. Perché l’empatia è dentro di me, ed ho un grande bisogno di condividerla!
In attesa di centrare questo importante obiettivo, speriamo di aver dato una risposta esaustiva al quesito iniziale, ovvero cosa significa empatia per noi di Project School.